UN'UNIONE INDESIDERATA: PROLOGO (T)

Non avevo mai sentito parlare della 'Tavola del Capitano', prima di quel giorno: non sono mai stata una gran bevitrice, anche quando mi ritrovavo in un pub o in posti simili, risultando puntualmente la pecora nera del gruppo. Ma era più forte di me: fintanto che potevo - e, di solito, facevo in modo di potere - ero quella che evitava le intossicazioni a base di alcohol o sintalcohol.
Avevo preso il comando della U.S.S. Excalibur (NCC-82603), vascello multi missione di classe Vesta, da pochi mesi, dietro precisa raccomandazione dell’Ammiraglio Kathryn Janeway, sotto la quale avevo servito qualche anno come Primo Ufficiale a bordo della Voyager. Janeway non aveva mai rinunciato al comando del vascello che, in sette anni di peregrinazioni nel Quadrante Delta, era riuscito a portare in salvo il suo equipaggio di circa 150 membri: una volta rientrati sulla Terra e promossa al rango di Ammiraglio, non aveva esitato a esercitare alcune delle prerogative del suo nuovo grado per poter mantenere il vascello di classe Intrepid come sua nave ammiraglia.

L’Excalibur era stata inviata dal Comando della Flotta Stellare a fare una ricognizione in uno spazio remoto del Quadrante Beta, praticamente inesplorato, per permettere a ulteriori vascelli federali di continuare la missione cardine della Federazione: scoprire strani, nuovi mondi e nuove civiltà, per andare là dove mai nessuno fosse giunto prima. A seguito di cosa sarebbe venuto fuori dai nostri rapporti, solo in un secondo momento sarebbero stati inviati ulteriori vascelli per approfondire e ampliare le nostre conoscenze di quel settore: il Capitano William Riker, ufficiale comandante della U.S.S. Titan, di classe Luna, si era risentito parecchio che la sua nave non fosse stata inviata al nostro posto, ma c’è da dire che la sua missione, in quel periodo, aveva un’importanza forse maggiore di quanto lui stesso non volesse ammettere.

Non che gli ultimi anni fossero stati privi di avvenimenti: dopo che la Guerra del Dominio era terminata, nel 2375, tutte le potenze del Quadrante Alfa e del Quadrante Beta non avevano potuto fare a meno di tirare un sospiro di sollievo e impegnarsi nella ricostruzione, con la Federazione che aveva prestato supporto umanitario all’Unione Cardassiana - completamente devastata dall’interferenza dei Fondatori. Non pochi anni più tardi, all’inizio degli anni 2380 (poco tempo dopo l’esser diventata Primo Ufficiale a bordo della Voyager) i Borg avevano deciso di invadere massicciamente i territori federali, annientando tutto ciò che ostacolava il loro cammino. Posso comprendere la necessità di Riker di svagarsi con una missione di questo tipo: doveva sembrargli più semplice e rilassante che affrontare i Borg. Era il motivo principale per cui io l’avevo accettata, indipendentemente dal fatto che l’Excalibur fosse meglio attrezzata rispetto alla sua Titan ad affrontare le minacce che trovammo in quei luoghi - tutto il rispetto alla classe Luna, che era una delle più tecnologicamente avanzate che Flotta e Federazione avessero in quegli anni.

Sto divagando, scusate. Mi trovavo sul ponte ologrammi ad allenarmi, sfruttando uno dei programmi che mi era stato passato, anni prima, dall’allora Tenente Comandante Worf - oggi, se non erro, dovrebbe essere ufficiale esecutivo del Capitano Picard, a bordo dell’Enteprise-E - quando notai, stranamente, una porta, l'insegna di una taverna e il relativo contorno da bettola, dotata di un’architettura tipicamente klingon.
Ci mancò poco che l'ologramma del Klingon con cui mi stavo allenando riuscisse a colpirmi, di fatto uccidendomi e facendo terminare il programma a mio sfavore; il tempo necessario a liberarmi del soggetto indesiderato, il quale si rivelò piuttosto difficile da abbattere, che ritornai a studiare, anche parecchio ammutolita, la struttura che mi si era appena palesata davanti.

La prima cosa che mi venne in mente di fare, quando l’ammutolimento decise di lasciar spazio a funzioni cerebrali più complesse, fu quella di chiamare il computer e chiedere l’arresto del programma, ma probabilmente non mi sarei dovuta sorprendere del non ottenere risposta: in quel momento, infatti, non mi trovavo effettivamente a bordo dell’Excalibur, ma completamente altrove. Ancora oggi non saprei dire dove, con esattezza. Forse è meglio così, tutto sommato: certe cose è meglio non saperle.
Per sicurezza, comunque, ci riprovai un altro paio di volte, prima di lasciar perdere e tentare approcci più tradizionali - o, comunque, presunti tali. Solo oggi posso affermare, con sicurezza, che mi ritrovai ad attraversare l’ingresso della fantomatica ‘Tavola del Capitano’ come se vi fossi in qualche modo attratta, trascinata, senza possibilità alcuna di alternative: dovevo entrarci, così ci entrai.

L’interno, in qualche modo, strideva fortemente con l’esterno - che, come ho detto, richiamava in tutto e per tutto l’architettura klingon: ora, non so se qualcuno di voi abbia idea di come sia l’interno di una taverna medievale, ma l’impressione che ne ebbi fu proprio quella. Ambiente con luce soffusa, principalmente proveniente da un grande focolare posto al fondo della sala comune, un bancone che dominava l’ambiente mediamente affollato e un individuo, zoppicante e dall’età indefinita, che poco assomigliava al tipico locandiere affermatosi nell’immaginario comune attraverso i secoli.
Non particolarmente stridente con il posto era l’aria che vi si respirava all’interno, un miscuglio di cibo cotto, prevalentemente carne stufata, e birra spillata di fresco, servita da celeri cameriere con indosso grembiuli immacolati su abiti dal taglio semplice. Quello che, in realtà, strideva era altro: il pavimento sembrava ondeggiare leggermente, quasi si fosse a bordo di una di quegli antichi velieri che avevano caratterizzato il mio pianeta attorno al XVIII secolo, e un’aria quasi salmastra sembrava serpeggiare tra gli odori provenienti dalla cucina. Il posto era pieno di avventori, di ogni specie e, a giudicare dall’abbigliamento, di ogni periodo storico e posto (un modo gentile, presumo, per far intendere che fossero alieni).

Dovendo aver percepito la mia perplessità, il locandiere mi si avvicinò immediatamente, salutandomi e presentandosi semplicemente come Cap, prima di spiegarmi cosa fosse quel luogo e perché mi trovassi lì: «Benvenuta alla Tavola del Capitano! Immagino lei si stia domandando cosa sia questo luogo e come mai non ne abbia mai sentito parlare prima,» aggiunse in maniera gioviale, «lasci quindi che glielo spieghi in poche parole.» Fu così che mi venne detto dove mi trovassi: la Tavola del Capitano esisteva da secoli, nessuno sapeva come fosse nata o perché; esisteva fuori dal tempo, a una sorta di crocevia, e vi potevano accedere tutti i capitani (o tutti coloro che rivestivano incarichi di facenti funzioni); generalmente, i nuovi capitani vi venivano introdotti da amici o da precedenti ufficiali comandanti - come questo potesse accadere non mi è mai stato chiaro: ho sempre apprezzato poco tutti i risvolti relativi alla meccanica temporale.
In alcuni casi, come il mio, il misteriosissimo bar compariva all’improvviso davanti al nuovo ‘cliente’, senza necessità che questi vi venisse introdotto da altri, probabilmente - e qua sono solo deduzioni, considerando che Cap non si è mai espresso a proposito e dubito che mai lo farà - perché in alcuni casi non è possibile passare per intermediari.

A proposito di meccanica temporale: a un certo punto, ma per puro caso, mi accorsi che tra i clienti del posto si trovava anche Benjamin Sisko: faceva strano vederlo indossare abiti civili, di moda qualche anno prima, tutto intento a sorseggiare una birra jibetiana. Quando avevo lasciato Deep Space 9 per lavorare al progetto Prometheus, prototipo della classe Prometheus dove poi avevo servito come secondo ufficiale, non ero più ritornata a bordo di Deep Space 9 se non poco dopo la fine della Guerra del Dominio, avvenuta nel 2375 - qualche mese dopo la mia partenza. Per allora, il Capitano Benjamin Sisko, ufficiale comandante di Deep Space 9 ed Emissario dei Profeti di Bajor, era stato salvato dagli stessi Profeti e fatto ascendere, azione che, di fatto, lo aveva fatto entrare nel Tempio Celeste.
Scossi il capo, dimentica di Cap e del fatto che mi stesse ancora parlando in merito al suo locale, ma questi non sembrò essere particolarmente turbato dal fatto che la mia attenzione fosse stata attratta da altro e, quasi a leggermi nel pensiero, domandò: «Una vecchia conoscenza?» Non potei fare a meno di annuire: alla fine, avevo prestato servizio sotto il suo comando per qualche tempo, prima di ritornare a bordo di un vascello federale. Dopo la sua ‘scomparsa’, inoltre, ero rimasta in contatto non solo con i miei vecchi colleghi della stazione, ma anche con il figlio, Jake Sisko, e la nuova moglie, che poco tempo dopo l’ascensione dell’ufficiale aveva dato alla luce una bambina dallo sguardo vispo e intelligente.

«Mi stava parlando del suo locale,» dissi, rivolta a Cap, con tono di scuse, «credo di essermi persa la forma di pagamento per le consumazioni.» Mi pareva avesse detto qualcosa, in merito, ma non ci avevo fatto particolarmente caso, e ora avevo questa cosa che mi ronzava nella testa relativa a questo discorso che non mi tornava. «Sì,» mi fece lui, «qua si paga con una storia.» Io lo guardai un attimo stralunata: «Come?»
Mi sorrise: «Sì, una storia. Vede, l’obiettivo è di condividere con gli altri qualcosa di noi stessi, raccontando un evento del nostro passato o, comunque, un qualcosa che si riferisca a ognuno di noi.» Mentre parlava, mi aveva fatto cenno di accomodarmi dove volessi: «Scelga pure dove mettersi, Capitano - io mi limitai a inarcare un sopracciglio - e intrattenga chi desidera con questo suo racconto. Io le porto da bere.» Con questo, si allontanò da me zoppicando leggermente, dirigendosi verso il bancone, senza nemmeno preoccuparsi di chiedere cosa io volessi. Probabilmente lo sapeva già, considerando che sembrava sapere molte cose sul mio conto senza che io avessi proferito parola.

Mi guardai attorno, perplessa. C’era qualcosa che continuava a sfuggirmi, tutto considerato: cosa ci facessi io lì, per esempio. Mi spiego meglio: tecnicamente, essendo stata elevata al rango di Capitano e comandando un vascello, avevo acquisito il diritto di trovarmi lì. Ma cosa ci si aspettava da me? Ma, soprattutto, perché mi trovavo lì, proprio in quel momento? Una voce alle mie spalle mi fece sobbalzare - Cap mi si era nuovamente avvicinato, con in mano un boccale di peltro pieno di un liquido scuro che, subito, non riconobbi: «Presa ancora da mille dubbi?»
Inarcando un sopracciglio, chiesi a cosa si riferisse. Lui sorrise, sornione: «Qua il tempo scorre diversamente rispetto a come lei è abituata a pensare. In un certo senso,» e fece cenno verso Sisko, «lui è davvero qua. O, almeno, una sua versione è qua con noi. Sì,» annuì, come se mi avesse letto nel pensiero, «so che fine abbia fatto Benjamin Sisko. No,» continuò, «anche se sapessi se ritornerà o meno, non mi sarebbe comunque possibile dirlo.» Io annuii, per quanto avessi sperato in qualche indizio da parte sua: se in quel bar potevano esserci nostre versioni del passato e del futuro, si sarebbe incorsi in grossissimi rischi per quanto riguardava la linea temporale.

Feci per guardarmi nuovamente attorno, quando notai un Trill, che non avevo visto prima, avvicinarsi, domandandomi: «Non è che, per caso, lei è Eva Ferrari?» Io annuii, perplessa, stringendo la mano che mi tendeva, nel tipico saluto umano: «Cosa posso fare per lei, Capitano…?»
Lui si presentò come Kobiss Vaal, dopodiché fece cenno verso il gruppo di alieni, prevalentemente Trill, che aveva lasciato per venire verso di noi: «Io e i miei amici abbiamo sentito molto spesso parlare di lei, Capitano. Circolano molte voci sul suo conto…»
«Credo,» osservò Cap con un sorriso sornione, «che qua ci sia proprio una storia da raccontare, dopotutto. Sarei quasi curioso di ascoltarla anche io,» aggiunse, mentre mi spingeva verso il gruppo di ufficiali precedentemente indicato da Vaal.
E così, quindi, ero oggetto di conversazione. Ciò che mi era accaduto aveva fatto il giro di mezza galassia senza neanche che io lo sapessi. Prima che le voci circolassero troppo senza controllo era meglio raccontare le cose come stavano.

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