UNO SGUARDO AL PASSATO (G)

I corridoi della U.S.S. Voyager (NCC-74656), per anni animati dal via vai degli ufficiali e del personale in servizio a bordo della classe Intrepid durante il loro involontario esilio nel Quadrante Delta, erano ora completamente vuoti. La nave era attraccata ai cantieri navali di Utopia Planitia, in orbita attorno al pianeta rosso di Marte, dal quale la Voyager era stata varata quella che sembrava essere una vita prima.

Kathryn Janeway, per sette lunghi anni al comando del vascello federale, camminava lentamente e in solitaria tra quei corridoi ora silenziosi, in compagnia dei suoi pensieri, del peso delle proprie decisioni, delle ripercussioni che ogni svolta aveva portato durante il tempo passato a vagare nel Quadrante Delta, nell’apparentemente vano tentativo di ritornare a casa tutti interi.
Tutti i membri del suo equipaggio, divenuti la sua famiglia, avevano lasciato uno a uno la nave, tutti più che ansiosi di riabbracciare i propri cari dopo che per sette anni le possibilità di successo erano sempre state piuttosto scarse. Solo lei rimaneva tra quei corridoi ora silenziosi.

Davvero non capiva cosa la trattenesse: la madre e la sorella erano venute apposta, a bordo di una delle navetta che aveva portato su Utopia Planitia le altre famiglie, per poter finalmente riabbracciare la donna, ma per qualche motivo Janeway continuava a non sentirsi davvero pronta a lasciare per quella che sarebbe stata molto probabilmente l’ultima volta la Voyager.
In diverse occasioni Tuvok, il vulcaniano a capo della sicurezza e suo vecchio amico, aveva posto in dubbio la creazione di un legame affettivo con un qualsiasi oggetto inanimato - come, del resto, era la Voyager stessa - e Janeway, nonostante sapesse quanto fosse complesso, aveva provato a fargli capire l’importanza a livello emozionale che anche un semplice ‘oggetto inanimato’ come la Voyager potesse avere per i suoi colleghi, meno disciplinati a controllare la propria emotività.
Alla fine del viaggio, comunque, persino la sua figura stoica aveva avuto un minimo di cedimento, guardandosi intorno un'ultima volta prima di sbarcare ed essere finalmente riunito alla sua famiglia. Grazie, inoltre, all’intervento del figlio primogenito, era stato anche in grado di guarire da una condizione neurale degenerativa non meglio specificata, diagnosticata dal Medico Olografico di Emergenza durante gli ultimi mesi nel Quadrante Delta.

Persa nei propri pensieri, trasalì quando sentì il rimbombo di alcuni passi riverberare nel silenzio tombale del corridoio in cui si trovava. Chi poteva mai essere, se l’ultimo dei suoi sottoposti aveva lasciato la nave non meno di un’ora prima? Che gli ingegneri dell’S.C.E. avessero già messo piede sulla Voyager, pronti a smantellare la sua nave pezzo per pezzo, con l’intenzione di studiare e analizzare in maniera approfondita gli innesti e i miglioramenti tecnologici compiuti nel corso degli anni, in particolare dopo l’incontro con la Janeway del futuro?

Voltandosi, riconobbe infine a chi appartenesse quella particolare cadenza, precisa e ritmata: Sette di Nove, Terziario Aggiunto dell’Unimatrice Zero Uno, negli ultimi quattro anni membro fondamentale del suo equipaggio. Senza la sua presenza e il suo fondamentale apporto fornito in quegli ultimi anni, la Voyager si sarebbe trovata non poco in difficoltà di fronte ad alcune delle più tragiche situazioni in cui si era imbattuta nel Quadrante Delta, in particolare i ripetuti confronti con i Borg.
Un istante più tardi, eccola lì, nella divisa così attillata da mostrarne, gioco forza, le forme, che il Dottore era stato costretto a farle indossare per permettere un efficiente ed efficace funzionamento degli impianti Borg ancora rimanenti nel suo organismo, alcuni dei quali inevitabilmente si intravedevano leggermente in rilievo, andando a sottolineare maggiormente il fisico magro e ben proporzionato della giovane.

«Sette,» la salutò con un sorriso Janeway, «non pensavo ci fosse ancora qualcuno a bordo.» La giovane, affiancandosi al proprio Capitano, rallentò il passo deciso che aveva mantenuto fino a quel momento, adeguandosi alla velocità dell’altra donna.
«Non volevo lasciarla sola, Capitano,» le rispose, con un sottofondo di gentilezza che tradiva la serietà e compostezza dimostrata dall’espressione della sua faccia, apparentemente neutra. «Inoltre, il Comandante Chakotay aveva fretta di sbarcare per incontrare la sua famiglia… io, al contrario, non avvertivo la sua stessa necessità di immergersi immediatamente all’interno di un contesto totalmente nuovo e alieno, per me.»

Continuando a passeggiare fianco a fianco, Janeway cercò di rassicurarla sul fatto che sarebbe stata perfettamente in grado di adattarsi alla sua nuova vita sulla Terra o in qualsiasi altro posto Sette avesse deciso di andare e qualsiasi cosa avesse deciso di fare. Lanciandole uno sguardo in tralice, aggiunse: «Potresti anche pensare di entrare nella Flotta: saresti un ottimo ufficiale.»

«Non ho mai pensato a questa possibilità,» ammise quasi riluttante Sette, continuando a camminare lentamente al fianco della donna più anziana. «Trovo molto difficile riuscire ad adattarmi a una vita al di fuori della Voyager…»
«Sette,» sospirò Janeway, ben conscia della difficoltà e del coraggio che l’altra donna si era impegnata a mettere in campo nel rivelare a qualcuno i propri dubbi e i propri problemi in quel modo così naturale, «vorrei dirti che tutto andrà bene e che avrai gli stessi ostacoli che incontreremo tutti noi. Ma so benissimo che non sarà così, per vari motivi.» Con un gesto benevolo, passò una mano su una delle paratie della nave, prima di continuare: «Il percorso di crescita e di integrazione fatto a bordo della Voyager non è stato semplice, riuscire ad accettare la diversità è sempre qualcosa che si fa a fatica, soprattutto se questa diversità è vista come un pericolo.»

Sorrise amaramente: «Ci vantiamo tanto di essere illuminati e di aver accolto infinite diversità, in infinite combinazioni, ma è sempre più facile a dirsi che a farsi.» La guardò, la traccia di amarezza sempre presente nella sua voce: «Sarà sempre così, in qualsiasi situazione ti ritroverai ad affrontare. È assolutamente normale avere paura e ritrovarsi spiazzati dalla situazione, come è normale voler mollare perché non si crede di riuscire a farcela.»
Adesso erano ferme, vicino a uno degli oblò che mostravano le costellazioni tanto conosciute del Quadrante Alpha, guardavano entrambe fuori: Janeway con le braccia incrociate, il caschetto di capelli ramati a circondarle il volto serio, concentrato. Sette era al suo fianco, mani dietro la schiena, la solita maschera neutra che tradiva chiaramente, e forse serenamente, la curiosità e il fascino che nutriva nell’ascoltare l’altra donna parlare. Non mostrava quella vulnerabilità con nessun altro, nemmeno con Chakotay (con il quale comunque si erano lasciati poco dopo l’arrivo della Voyager in orbita dei cantieri navali di Utopia Planitia).

Dopo qualche minuto, fu Sette a parlare: «Quando sono salita a bordo della Voyager quattro anni fa, come drone scollegato dalla Collettività, in un mondo totalmente nuovo per me… mi sentivo persa. Sì, avevo paura, mi sentivo in un ambiente ostile, che mai mi avrebbe accettata. Mi sentivo ed ero profondamente sola, senza più tutta quella molteplicità di voci nella mia testa, a cui tanto ero abituata e di cui pensavo di non poter fare a meno.» Questa volta fu lei a lanciare uno sguardo in tralice a Janeway, che l’ascoltava attentamente come sempre aveva fatto, prima di ritornare a guardare fuori: «Ora ho paura esattamente come allora, le molteplicità a cui andrò in contro da sola, senza qualcuno che mi guidi, sono esponenzialmente maggiori. Ma la Voyager, ora, è la mia collettività. La mia famiglia. Capitano,» si voltò a guardarla negli occhi, «lei mi ha dato una nuova vita, nonostante all’inizio io fossi parecchio refrattaria e l’avessi più volte minacciata.»

Janeway le strinse gentilmente un braccio, scrollando appena il capo, in quel suo modo classico di minimizzare il proprio merito in situazioni di quel tipo: «Sette, hai compiuto progressi notevoli, sia come individuo sia come membro dell’equipaggio di questa nave, decidendo di impegnarti nel seguire una rotta che non conoscevi, di buttarti e fidarti, nonostante tutto. Per quello che vale, la Voyager non sarebbe la stessa senza di te.»
Le sorrise, gentilmente: «Sappi che, per conto mio, saresti un ottimo Ufficiale della Flotta Stellare. Anche un ottimo Capitano, se mai un giorno dovessi decidere di percorrere quella carriera e puntare ad avere un comando tutto tuo. E io non potrò fare a meno di esserne fiera, perché sarà l’ennesima riprova di quanto tu sia un individuo capace e abile.»
Sette la guardò, qualche dubbio ancora presente nel suo tono di voce e anche nel suo sguardo: «Ma se dovessi deludervi…» ma Janeway la interruppe, con estrema gentilezza: «Nessuno è perfetto, Sette. Mirare alla perfezione ci pone nella condizione di migliorare costantemente noi stessi. E tu… tu sei perfetta così, non potrai mai deludere la tua famiglia, non potrai mai deludere me. Questa nave sarà sempre la tua casa, anche quando sarà decommissionata; questo equipaggio sarà sempre la tua famiglia, io sarò sempre la tua famiglia e tu la mia. Ci sarò sempre per te.»

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Seduta dietro la scrivania del suo nuovo ufficio a bordo della U.S.S. Enterprise (NCC-1701-G), il Capitano Annika Hansen, meglio conosciuta come Sette di Nove (nome che, nonostante tutto, continuava a preferire), stava fissando un DiPADD con all’interno le schematiche della ormai decommissionata U.S.S. Voyager (NCC-74656), conservata presso il Museo gestito dal Commodoro Geordi La Forge. Vicino al terminale sulla scrivania, una tazza ormai vuota.

Rivedere la nave di fronte a sé, dopo tutti quegli anni, e la successiva promozione al rango di Capitano l’avevano riportata indietro nel tempo, a quella conversazione avuta con l’allora Capitano Kathryn Janeway, ora uno degli Ammiragli più alti in grado tra le fila della Flotta Stellare. Nonostante fossero anni che non si vedessero, Sette sapeva in cuor suo che Janeway non era mai venuta meno alla sua promessa, anche se non nel modo in cui Sette stessa avrebbe forse gradito. A interrompere i suoi pensieri fu il campanello posto all’ingresso della sala tattica: posando il DiPADD sulla scrivania, chiamò ad alta voce per far accomodare chiunque si trovasse dall’altra parte della doppia porta. Non ebbe vergogna delle lacrime e del sorriso che comparvero sul suo volto, vedendo chi fosse dall’altra parte e sentendosi chiedere se fosse possibile avere una tazza di caffè bollente.

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